[tab:ita]
Cesare Ronconi riprende lo spettacolo d’esordio del Teatro Valdoca e lo riscrive. Ad una prima parte che quasi fedelmente richiama la versione originale, se ne aggiunge una seconda, creaturale, panica, ed una terza, di poesia pensante, riflessiva, misteriosa e savia. Due figure femminili abitano una scena in cui fisica e metafisica coesistono e smarginano una nell’altra. Misurano, sondano, percorrono con cautela lo spazio che la loro presenza alleggerisce e dilata. Come vestali a venire, conducono in scena un corpo, dormiente, forse, o dissepolto e lo interrogano. Il corpo risponde e ammaestra.
“Il nostro teatro è cominciato 26 anni fa con un atto contemplativo.Era Lo Spazio della Quiete. Non avevamo nulla, non eravamo nulla. Cesare ed io avevamo appena sciolto il composito gruppo precedente e ci sentivamo finiti. Non sapevamo che invece la nostra avventura artistica e conoscitiva cominciava per davvero in quell’ascolto teso, in quel tempo lentissimo e silenzioso, dentro la saletta nella quale ancora oggi lavoriamo. Lo spettacolo poi girò l’Europa, accolto con entusiasmo, guardato con stupore, per quel suo stare a metà fra danza, teatro, performance, meditazione, paesaggio d’anima, natura, geometria, arte, preghiera.Erano anni in cui alcuni gruppi di nuovo teatro cominciavano ad usare grandi volumi di suono, complessi impianti scenografici, altri seguivano le piste del Terzo Teatro. Lo Spazio della Quiete si svolgeva in silenzio, con una scena poverissima ed essenziale. Era anacronistico ed emozionante. Qualcuno dice che nel silenzio si accumula potenza. Noi, senza saperlo, abbiamo scritto lì il nostro alfabeto. Abbiamo fondato il nostro teatro, la nostra lingua.
Se oggi lo riprendiamo non è per spirito museografico. Tornare alle proprie radici è a volte un atto necessario, di ordine interiore, di sacra spoliazione. Ma ecco che le nostre radici nel frattempo hanno viaggiato con noi, accanto a noi, e anch’esse sono, come noi, cambiate. (Ancora una volta il nostro teatro ribadisce la propria predilezione per la parola ‘adesso’, la propria devozione al presente). Dunque questo nuovo Spazio della Quiete si nutre della prima mitica versione, e a quella intreccia i cordami, le venature di ciò che è nato dopo. Le due figure femminili allora mute, ora, a ventisei anni da quel silenzio, parlano. Lo fanno piano piano, come chi ha taciuto a lungo. E portano in scena una terza presenza, un corpo maschile che giace, che sa, che pare essere stato, anch’esso per anni, dentro un sonno, allattato con gli alfabeti del mondo, dissepolto da una fossa visitata dai savi. A quel corpo le due figurette pongono precise domande: è vero che la parola non è invenzione umana? è vero che la parola canta e sostiene l’universo? E’ vero…? E’ vero…? Il testo prende il passo di poesia pensante, e si accoccola attorno al tema della parola, al furore e all’amore per questa espressione umana e sovrumana. La figura maschile, prima di reclinarsi in un nuovo sonno, pronuncia con dolcezza il proprio non sapere, il proprio sapere d’amore e in quello si conficca. Delle nostre due anime teatrali, una furiosa e dolente, l’altra quieta, favolistica e contemplativa, siamo qui pienamente immersi nella seconda. Lì dove, appunto, siamo nati. Qui ci ristoriamo e raccogliamo le forze, prima della prossima grande avventura che ci attende”.
Mariangela Gualtieri
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Cesare Ronconi takes up Teatro Valdoca’s debut show and re-writes it. He adds two parts to the first one, which is almost faithful to the original version: the second part concerns the natural and creatural world and the third one is poetic, reflective, mysterious and wise. In two female characters that are on the stage, physics and metaphysics coexist and influence each other. They estimate, investigate and cover the space that their presence cautiously lightens and expands. Like guardians, they escort a body to the stage, either sleeping or exhumed, and they question it. The body answers and teaches. “Our theatre was born twenty-six years ago, with Lo Spazio della Quiete. We did not have anything then. Cesare and I had just split with the previous group and felt lost. We did not know yet that our artistic and cognitive adventure was only beginning in that earnest and tense atmosphere, in that noiseless and distant time, in that little room in which we are still working.
Then the show toured around Europe. It was hailed, watched in amazement for it represented a cross between theatre, dance, performance, meditation, introspection, nature, structure, art, prayer.
Those were years in which some new theatre companies began to use large amount of sound and complex scenery; others moved towards the ‘Third Theatre’. Lo Spazio della Quiete developed silently, with a very poor and essential setting. It was anachronistic and exciting. Someone says that we accumulate power in silence. Without knowing it, we had invented there our own alphabet. We had founded our own theatre, our own language.If we stage it again today, it is not for museographical spirit. Sometimes we need to go back to our roots, that is an act of sacred plundering and interior ordering. In the meantime, our roots travelled with us, near us, and they have changed like us. (Our theatre once more proves its partiality with the concept of ‘now’, i.e. its devotion to the present).
So, this new Spazio della Quiete lives on the first legendary version, and entwines with the ropes and the veins of what was born after. The two female characters were mute before, but now, after twenty-six years, they begin to talk. They do it softly, like somebody who had not talked for a long time. They bring a third character, a lying male body: he has got the knowledge and he seems to have been sleeping for many years, fed with the alphabets of the world, and exhumed from the grave visited by some wise men.The two women ask this body specific questions: is it true that words are not a human invention? Is it true that words praise and support the universe? Is it true…? Is it true…? The text changes into thinking poetry, and it moves closer to the theme of ‘the word’, to the fury and love for this human and superhuman expression. The male character, before falling asleep again, says sweetly that he does not know anything, not even about love. We have two theatrical souls: one is furious and painful, the other is quiet, originated from fables, and contemplative. We were completely involved in the second one, where we were born. We refresh ourselves and gather strength there, before the next great adventure.”
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Cesare Ronconi riprende lo spettacolo d’esordio del Teatro Valdoca e lo riscrive. Ad una prima parte che quasi fedelmente richiama la versione originale, se ne aggiunge una seconda, creaturale, panica, ed una terza, di poesia pensante, riflessiva, misteriosa e savia.
Due figure femminili abitano una scena in cui fisica e metafisica coesistono e smarginano una nell’altra. Misurano, sondano, percorrono con cautela lo spazio che la loro presenza alleggerisce e dilata. Come vestali a venire, conducono in scena un corpo, dormiente, forse, o dissepolto e lo interrogano. Il corpo risponde e ammaestra.
“Il nostro teatro è cominciato 26 anni fa con un atto contemplativo.
Era Lo Spazio della Quiete. Non avevamo nulla, non eravamo nulla.
Cesare ed io avevamo appena sciolto il composito gruppo precedente e ci sentivamo finiti. Non sapevamo che invece la nostra avventura artistica e conoscitiva cominciava per davvero in quell’ascolto teso, in quel tempo lentissimo e silenzioso, dentro la saletta nella quale ancora oggi lavoriamo.
Lo spettacolo poi girò l’Europa, accolto con entusiasmo, guardato con stupore, per quel suo stare a metà fra danza, teatro, performance, meditazione, paesaggio d’anima, natura, geometria, arte, preghiera.
Erano anni in cui alcuni gruppi di nuovo teatro cominciavano ad usare grandi volumi di suono, complessi impianti scenografici, altri seguivano le piste del Terzo Teatro.
Lo Spazio della Quiete si svolgeva in silenzio, con una scena poverissima ed essenziale. Era anacronistico ed emozionante.
Qualcuno dice che nel silenzio si accumula potenza. Noi, senza saperlo, abbiamo scritto lì il nostro alfabeto. Abbiamo fondato il nostro teatro, la nostra lingua.
Se oggi lo riprendiamo non è per spirito museografico. Tornare alle proprie radici è a volte un atto necessario, di ordine interiore, di sacra spoliazione.
Ma ecco che le nostre radici nel frattempo hanno viaggiato con noi, accanto a noi, e anch’esse sono, come noi, cambiate. (Ancora una volta il nostro teatro ribadisce la propria predilezione per la parola ‘adesso’, la propria devozione al presente). Dunque questo nuovo Spazio della Quiete si nutre della prima mitica versione, e a quella intreccia i cordami, le venature di ciò che è nato dopo. Le due figure femminili allora mute, ora, a ventisei anni da quel silenzio, parlano. Lo fanno piano piano, come chi ha taciuto a lungo. E portano in scena una terza presenza, un corpo maschile che giace, che sa, che pare essere stato, anch’esso per anni, dentro un sonno, allattato con gli alfabeti del mondo, dissepolto da una fossa visitata dai savi. A quel corpo le due figurette pongono precise domande: è vero che la parola non è invenzione umana? è vero che la parola canta e sostiene l’universo? E’ vero…? E’ vero…?
Il testo prende il passo di poesia pensante, e si accoccola attorno al tema della parola, al furore e all’amore per questa espressione umana e sovrumana. La figura maschile, prima di reclinarsi in un nuovo sonno, pronuncia con dolcezza il proprio non sapere, il proprio sapere d’amore e in quello si conficca.
Delle nostre due anime teatrali, una furiosa e dolente, l’altra quieta, favolistica e contemplativa, siamo qui pienamente immersi nella seconda. Lì dove, appunto, siamo nati. Qui ci ristoriamo e raccogliamo le forze, prima della prossima grande avventura che ci attende”. M.G.