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Poche considerazioni
Sfatiamo un mito. Essere stranieri in patria è una condizione positiva dell’esistere. Non si tratta di considerazioni su un merito paziente che non trovando chi gli faccia smettere di attendere segue flussi migratori perché in fondo la pazienza non è proprio la dote più attraente, non si tratta neppure di disquisire su Mameli o su integralismi che per natura schifano le sfumature possibiliste dei grigi, forse per gran parte delle persone c’è solo una fastidiosa idea di inevitabile sconfitta declinata in due varianti, stessa medaglia a doppia faccia reversibile: dagli allo straniero / non dagli allo straniero perché qui tanto la patria non è mia, non sono fra quei pochi. Dunque di che si tratta allora? Per nostra natura siamo portati a dar per assodata la condizione di cittadino del mondo e a considerare quindi il problema come riguardante ogni essere umano di qualsiasi tempo, ed ora l’aspetto positivo dell’essere stranieri in patria con le parole dell’amato Derrida: «lo straniero è colui che pone la prima domanda , o colui al quale si rivolge la prima domanda» perciò se lo straniero sono io, come essere umano, e mi pongo la prima domanda mi metto in questione e da tempo sosteniamo che la crisi (=cambiamento) è una condizione di esistenza se non positiva almeno promettente. Il tema dello straniero è l’emblema di una interrogazione che ogni società rivolge a se stessa «come se lo straniero fosse la questione stessa dell’essere in questione». Ed ora che ci sentiamo pacificati e speranzosi in questa condizione positiva di stranieri in patria vorremmo ragionare sui rapporti fra l’individuo e la folla e fra la folla e il potere, fra l’affermazione del singolo che forse dall’altro impara come il combattivo scimpanzé cesare che in uno dei sequel di Planet of the Apes capisce che la paura dell’altro, dell’ uomo, arriva dal solo fatto di riconoscersi in lui come diverso, come straniero, come parte sconosciuta di sé, come volontà di autodeterminazione, volontà di essere individuo riconoscibile fra la folla forse individuo ancora non così ben confezionato. Amanti delle citazioni, specie quando paiono create apposta e comunque per smorzare questo tono ottimistico che impone la certezza di positività dell’essere straniero in patria come spinta motrice, chiuderemmo con grida di odio: «…e anch’io mi sentivo pronto a rivivere tutto. Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora. perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida d’odio». (Albert Camus, Lo straniero)
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