Andrew Quick

Sono uno straniero nel mio stesso paese
Hotel Methuselah è una storia che narra di una crisi di appartenenza. Si tratta di una rappresentazione incentrata su di un uomo che ha perso la memoria, che non appartiene più, letteralmente. L’azione inoltre ha luogo in un imprecisato paese europeo che si trova nel pieno di una guerra civile, in un paese che non si riconosce più, ed è questa la ragione per cui è diviso. Tali due tematiche hanno dato forma al modo in cui abbiamo realizzato questo spettacolo, ossia ciò che ha creato questa sensazione di perdita di appartenenza e come il problema della responsabilità diventi spigoloso quando la perdita di appartenenza viene percepita sia collettivamente che singolarmente. A pervadere la rappresentazione sono i vari conflitti che in tempi recenti hanno lacerato l’Europa ed alla base delle narrazioni che raccontiamo in quest’opera ci sono storie personali. Per quanto riguarda la mia famiglia, mio nonno si era offerto come volontario per combattere durante la Seconda Guerra Mondiale mentre mia nonna era incinta di mio padre. Non ci sarebbe dovuto andare. Aveva superato da tempo l’età dell’arruolamento. Tuttavia, aveva lasciato sola mia nonna ed era stato catturato a Dunkirk dopo essere stato reclutato nell’esercito solo da poche settimane. Mio padre non aveva più visto il proprio padre per quasi sette anni. Peraltro, una volta tornato a casa, mio nonno aveva detto a mio padre che si sentiva uno straniero nel suo stesso paese, una sensazione spesso provata da coloro che ritornano da un conflitto. Ho sempre desiderato sapere che cosa abbia spinto mio nonno a lasciare sola mia nonna. È stato per spirito di avventura, per sottrarsi alle responsabilità o per il bene, a livello politico, di un’Europa sull’orlo del collasso? Questo spettacolo è, nel suo piccolo, un’esplorazione di tali questioni, raccontata attraverso la strutturazione di una storia diversa ma parallela, una di quelle che, mi auguro, siano in grado di suscitare coinvolgimento in coloro che le guardano.
Ovviamente, essere alienati è una delle condizioni esistenziali insite nell’essere umano. Se questo è il lato negativo, in tale condizione ne sussiste tuttavia uno positivo che dovremmo prendere in considerazione, ossia quanto spesso ci capiti di accogliere lo straniero dandogli il benvenuto. Forse, alla luce del nazionalismo e della onnipresente spinta patriottica nei confronti della quale dovremmo essere sempre diffidenti ed estremamente attenti, lo straniero ci ricorda ciò che significa essere umani, ossia essere aperti e calorosi nel dare il benvenuto a coloro che non conosciamo, nel provare nuove cose e nel trarre sempre maggiori stimoli. E questo ritengo sia uno degli scopi del teatro stesso: sondare l’inconsueto e renderlo sempre nuovo e diverso.

una replica da parte di Andrew Quick (Imitating The Dog, Regno Unito).

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